L’obesità infantile è una delle sfide sanitarie più urgenti del nostro tempo. Aumenta il rischio di diabete, ipertensione, malattie cardiovascolari e problemi psicologici fin dalla giovane età. Ma tra i numerosi fattori che concorrono a questo fenomeno, uno in particolare merita un’attenzione crescente: l’impatto del marketing alimentare sui comportamenti dei bambini.
Un recente studio randomizzato, presentato al Congresso Europeo sull’Obesità 2025 (ECO) a Malaga, ha rivelato dati allarmanti: bastano 5 minuti di esposizione a pubblicità di cibo spazzatura per indurre un aumento medio di 130 kcal nell’assunzione giornaliera di bambini e adolescenti. Una quantità apparentemente modesta, ma sufficiente a provocare un significativo incremento di peso nel tempo.
Il marketing alimentare, dunque, non solo stimola la domanda, ma modifica direttamente i comportamenti alimentari, influenzando scelte e quantità. Questo effetto è particolarmente potente sui più giovani, il cui sistema di regolazione della fame e della sazietà è ancora in via di sviluppo e altamente vulnerabile agli stimoli esterni.
Ma quali sono le evidenze scientifiche dietro questo effetto? Quali tipologie di pubblicità sono più dannose? E soprattutto: quali strategie si possono adottare – a livello individuale e collettivo – per contrastare questo fenomeno?
L’effetto del marketing alimentare sul comportamento dei bambini
Il marketing alimentare non è neutro. Ha effetti misurabili, immediati e persistenti sulle scelte alimentari dei più giovani. Secondo lo studio presentato al Congresso Europeo sull’Obesità 2025, anche una brevissima esposizione di soli 5 minuti a pubblicità di alimenti ricchi di grassi saturi, zuccheri o sale si traduce in un aumento medio di 130,9 kcal nella giornata, distribuite tra snack e pasti principali.
Questo dato, apparentemente contenuto, è in realtà sufficiente ad avviare un processo di aumento di peso se mantenuto nel tempo. Considerando che i bambini sono esposti quotidianamente a decine di stimoli pubblicitari – sui social media, in TV, nei podcast, nei videogiochi e persino nei cartelloni pubblicitari – il rischio si moltiplica in modo esponenziale.
Ciò che colpisce è che l’effetto del marketing non si limita al momento dell’esposizione. I bambini tendono a consumare più cibo anche nei pasti successivi, e non solo subito dopo la pubblicità. Questo indica una modifica del comportamento alimentare che persiste e interferisce con i meccanismi naturali di regolazione della fame.
Il marketing di cibi ultra-processati agisce su più fronti: colore, musica, mascotte, premi, storytelling e loghi. Sono questi gli strumenti che riescono a creare un legame emotivo con il prodotto, trasformando l’alimento in un “premio” o in un’esperienza desiderabile. E il cervello dei bambini, ancora in fase di sviluppo, non ha difese cognitive sufficienti per opporsi.
Tutte le forme di pubblicità hanno lo stesso impatto?
Una delle scoperte più sorprendenti emerse dallo studio è che non serve mostrare il prodotto per influenzare il comportamento alimentare dei bambini. Anche le pubblicità di sola marca – ovvero spot che mostrano solo loghi, colori aziendali o jingle riconoscibili, senza immagini di cibo – risultano altrettanto efficaci nell’indurre un aumento del consumo calorico quanto le pubblicità esplicite di prodotto.
Questo dimostra che il branding da solo è in grado di attivare risposte comportamentali automatiche, anche in assenza di stimoli visivi o gustativi diretti. Una musica familiare o il richiamo a una mascotte possono innescare il desiderio, agendo a livello inconscio sulla memoria e sull’associazione emozionale.
Anche il tipo di media utilizzato – che si tratti di contenuto audiovisivo (come video su YouTube), visivo (immagini sui social), audio (podcast o radio) o statico (cartelloni pubblicitari) – non ha fatto differenza significativa nei risultati. In tutti i casi, i bambini esposti a pubblicità di cibo spazzatura hanno mangiato di più rispetto a chi era stato esposto a spot non alimentari.
Questa trasversalità di impatto indica che il problema non è tanto nel mezzo, quanto nel messaggio. E mostra quanto sia necessaria una regolamentazione più ampia, che vada oltre la TV e consideri anche le nuove piattaforme digitali dove i brand alimentari sono sempre più presenti.
Limitare l’esposizione pubblicitaria dei bambini non significa solo spegnere la televisione. Significa riconoscere che il marketing oggi viaggia su molteplici canali e forme, e che tutti possono contribuire a distorcere le scelte alimentari.
L’obesità come problema multifattoriale – il marketing è solo l’inizio
L’obesità infantile non nasce da una sola causa, ma da un’interazione complessa tra fattori biologici, ambientali, psicologici e sociali. Il marketing alimentare è senza dubbio un elemento centrale, ma va letto all’interno di un ecosistema disfunzionale più ampio, dove abitudini familiari, disponibilità economica, accesso al cibo sano e stili di vita sedentari giocano un ruolo determinante.
Bambini che crescono in contesti svantaggiati spesso vivono in ambienti obesogeni: supermercati pieni di junk food a basso costo, mancanza di spazi sicuri per muoversi, genitori oberati che ricorrono a soluzioni alimentari rapide, e poca alfabetizzazione nutrizionale. Tutto questo rende ancora più pervasivo l’effetto della pubblicità, che trova terreno fertile in una routine già sbilanciata.
Lo studio presentato all’ECO ha voluto proprio indagare se le caratteristiche sociodemografiche potessero moderare l’impatto della pubblicità, analizzando lo status socioeconomico dei bambini attraverso i codici postali di residenza. I risultati mostrano che l’effetto del marketing sul consumo alimentare è trasversale, indipendentemente dalla condizione economica, ma che i bambini con indice di massa corporea (BMI) più alto tendevano a mangiare ancora di più dopo l’esposizione.
Questo suggerisce che i bambini già vulnerabili dal punto di vista metabolico sono anche i più sensibili agli stimoli pubblicitari. Ecco perché non bastano interventi educativi individuali, ma è necessaria una risposta sistemica, che agisca a livello di politiche pubblicitarie, ambienti scolastici, servizi sanitari e comunità.
Un problema globale che richiede soluzioni urgenti e coordinate
L’obesità infantile è ormai una crisi sanitaria globale. Secondo l’OMS, i tassi di sovrappeso e obesità tra i bambini sono aumentati in modo allarmante negli ultimi trent’anni, soprattutto nei paesi ad alto e medio reddito. Questo trend non solo mette a rischio la salute delle nuove generazioni, ma genera costi enormi per i sistemi sanitari, già sotto pressione.
Alla luce dei nuovi dati emersi dallo studio presentato all’ECO, è chiaro che le attuali politiche di regolamentazione pubblicitaria sono insufficienti. Mentre in alcuni paesi europei si sono introdotti limiti alla pubblicità televisiva di cibi non sani durante le fasce orarie per bambini, manca ancora una normativa efficace che copra il mondo digitale, dove i più giovani trascorrono sempre più tempo.
La professoressa Emma Boyland, autrice principale dello studio, sottolinea che le pubblicità di sola marca – oggi completamente fuori dal radar normativo – hanno lo stesso impatto delle pubblicità esplicite. Questo implica la necessità di una revisione completa delle linee guida pubblicitarie, adattata ai nuovi formati e piattaforme: dai post sponsorizzati su TikTok alle inserzioni audio nei podcast.
Non solo: servono campagne educative coordinate a livello scolastico e familiare, incentivi per le aziende che promuovono cibi sani, e programmi di monitoraggio nutrizionale nei primi anni di vita. Le evidenze scientifiche ci sono. Ciò che manca è la volontà politica di tradurle in azione.
Affrontare l’obesità infantile richiede una risposta collettiva, in cui sanità pubblica, istituzioni, educatori, media e famiglie collaborano per proteggere il futuro dei bambini.
Cosa possiamo fare, oggi, per proteggere i bambini?
La prevenzione dell’obesità infantile non può più essere rimandata. I dati scientifici parlano chiaro: il marketing alimentare non sano agisce in modo potente e silenzioso, modificando i comportamenti alimentari fin dai primi anni di vita. Ma fortunatamente, esistono azioni concrete e immediate che genitori, educatori e istituzioni possono intraprendere per arginare questa emergenza.
A livello familiare, il primo passo è educare i bambini a riconoscere i trucchi della pubblicità. Parlare apertamente di come funziona il marketing, spiegare perché certi prodotti vengono mostrati con insistenza e offrire alternative sane ma appetibili, aiuta a sviluppare spirito critico e autonomia decisionale.
A scuola, è fondamentale introdurre programmi di educazione alimentare integrata, che uniscano teoria, esperienze pratiche e coinvolgimento emotivo. Le mense scolastiche, inoltre, possono diventare luoghi di apprendimento attivo, offrendo pasti equilibrati e stimolando la curiosità verso nuovi sapori e combinazioni.
Dal punto di vista sanitario, serve un monitoraggio nutrizionale precoce, con valutazioni regolari del peso, dell’altezza e dell’IMC già a partire dall’età prescolare. È anche cruciale che pediatri e nutrizionisti lavorino in sinergia per intercettare segnali di rischio e proporre interventi tempestivi e personalizzati.
Ma soprattutto, serve un cambiamento culturale, che rimetta al centro il benessere dei bambini, al di là delle logiche di mercato. I minori non possono essere lasciati soli davanti a una pubblicità progettata per manipolarli.
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